Nell'autunno del 2001 mi
trovavo all'interno di un grigio box di un metro per un metro e dalla
temperatura al limite della sopportazione umana, dovuta al calore
prodotto da due vetuste fotocopiatrici sempre in funzione.
All'esterno, studenti svogliati aspettavano in fila il loro turno per
farsi fotocopiare i testi presi in prestito. Sebbene avessi appena
conseguito una laurea in scienze dell'educazione e avessi
espressamente richiesto di adoperarmi nel settore sociale (Caritas,
comunità, scuole), mi fu assegnato l'incarico di assistente alla
biblioteca universitaria (leggasi: ragazzo delle fotocopie) in
qualità di obiettore di coscienza. Il 2001 è stato l'ultimo anno
prima dell'abolizione del servizio militare obbligatorio in Italia,
ma le scelte su destinazione e incarichi assegnati agli obiettori
erano ancora di competenza dell'esercito, che vedeva bene di “punire”
i sedicenti pacifisti assegnandoli a mansioni il più possibile
incompatibili con le indicazioni espresse al momento della
registrazione. C'era ovviamente la possibilità di presentare una
nuova domanda, ma per evitare equivoci mi si addusse l'esempio di
una “testa calda” allontanata appositamente in quel di Pordenone.
A buon intenditor, poche parole. Va da sé che i miei 10 mesi
andarono semplicemente sprecati, non solo per me, ma anche per il
supporto che, da operatore qualificato, avrei potuto offrire alla
mia comunità di appartenenza.
Dopo questa premessa, la crescente allergia che andavo
sviluppando nei confronti del Belpaese è più che comprensibile. Unico sollievo alla
“naia” era la possibilità di accedere senza limiti ai volumi
della biblioteca. Già allora progettavo piani di fuga e la
destinazione prescelta era la Germania, per ragioni inizialmente
sentimentali, che nascondevano però un interesse speciale per quella
terra così diversa dalle nostre coste mediterranee. L'attrazione e
il fascino che provavo mentre leggevo le edizioni degli anni '70
dello “Spiegel”, nel tentativo di migliorare affannosamente la
comprensione della lingua, cresceva in maniera proporzionale alla mia
determinazione di lasciare l'Italia. Nei momenti di distrazione della
direttrice sgattaiolavo dal pestifero box e raggiungevo a passo
svelto la facoltà di lingue, dove seguivo tre corsi di tedesco
(base, medio e conversazione). La frustrazione della mia condizione
alimentava energie insospettate. Durante un periodo di
calma piatta, aggirandomi tra la penombra di un sabato mattina,
individuai tra i polverosi scaffali un libro il cui titolo mi saltò
subito agli occhi: “Alexanderplatz – Da Berlino all'Europa
tedesca”. Si trattava di un volume scritto cinque anni prima (e
quindi nel 1996) da Carlo Bastasin, economista e giornalista de "La
Stampa" e de "Il Sole 24 Ore" . Divorai il libro in meno di tre giorni e
ricordo che rimasi colpito dalla acutezza delle osservazioni
dell'autore sulla società tedesca. All'epoca avevo visitato la
Germania solo un paio di volte e per periodi non più lunghi di una
settimana e, pur apprezzando il libro, non potevo giudicarne
l'attendibilità.
A distanza di dodici
anni, e dopo aver trascorso degli anni in terra tedesca, ho deciso di
riprendere in mano il volume, acquistato per l'occasione su internet di
seconda mano, guarda caso proprio da un torinese ("La Stampa" è il
giornale di Torino). Se leggere è piacevole, rileggere lo è ancora
di più, soprattutto se ciò che abbiamo tra le mani è un prodotto
di qualità. Le rilettura di “Alexanderplatz” dopo più di una
decade di esperienze dirette si è rivelata, se possibile, ancora più
affascinante della lettura durante gli anni della “prigionia”. E
in più posso confermare la bontà delle riflessioni e conclusioni di
Bastasin. Il libro tratta argomenti
ancora sorprendentemente attuali: l'integrazione tra Germania est ed
ovest dopo la caduta del muro, l'impatto delle politiche sociali
tedesche, le loro prospettive future, il ruolo della Germania nella
politica non solo monetaria dell'Unione. Tra le molteplici
sollecitazioni contenute nelle 233 pagine del libro, la seguente mi
ha impressionato in modo particolare:
“quanto può durare […] la solidarietà tra paesi diversi come
quella richiesta dal progetto europeo? La risposta è semplice: fino
alla prossima recessione, fino alla prossima crisi che taglierà la
linea di galleggiamento di una barca troppo affollata e velocemente
assortita per essere già unita e solidale”
Mi piace evidenziare
queste parole (scritte nel 1996) e considerarle come “la profezia di Bastasin”,
anche se probabilmente in quel periodo l'inviato in Germania de "Il Sole 24 Ore" non era l'unico a sottolineare
l'urgenza circa riflessioni più approfondite in merito al processo
di integrazione europea. L'Unione Europea è attualmente un facile
bersaglio, che catalizza critiche, malumori e crescenti sentimenti di
disaffezione e disillusione. Sebbene la maggior parte di questo
malcontento sia giustificata e comprensibile, non va però
dimenticato che l'architettura delle istituzioni comunitarie è ed è
stata un prodotto della volontà preponderante degli stati membri, al
fine di tutelare gli interessi nazionali. Non è un caso che il
potere principale è ancora detenuto dal Consiglio dei Ministri
dell'Unione Europea (e quindi dai governi), nonostante il trattato di Lisbona abbia esteso
il principio di co-decisione del Parlamento Europeo a quasi tutto il
processo legislativo comunitario. Quando tendo ad essere troppo
euro-scettico, euro-depresso o euro-catastrofista, ora tendo a
morsicarmi la lingua a e pensare due volte prima di parlare; perchè,
allo stesso tempo, provo anche una gran rabbia quando sento o leggo
le dichiarazioni dei rappresentanti dei governi (non solo quello
italiano, sul quale sono ovviamente più informato) che accusano
“l'Europa” (identificandola grossolanamente con l'UE, che conta
invece 28 stati su 50 esistenti nel vecchio continente) per i peccati
da loro commessi, con lo scopo di estraniarsi da una situazione che
loro stessi hanno contribuito a creare.
Nella sua lucida analisi
risalente a quasi venti anni fa, Carlo Bastasin sottolineava come il
progetto di integrazione europea non si sarebbe potuto basare solo su
direttrici di natura economica e finanziaria, come se lo sviluppo
della solidarietà sociale fosse un risultato di strategici
“spill-overs”. Occorreva e occorre tuttora un ripensamento non
solo della già menzionata architettura istituzionale comunitaria, ma
anche delle sua fondamenta sociali e culturali, in una parola: umane.
Sempre che non sia troppo tardi. La lettura di
“Alexanderplatz”, per chi voglia comprendere più a fondo la
questione qui solo brevemente dibattuta, è più che consigliata.
PS: se sta leggendo
questo articolo, saluto cordialmente Carlo Bastasin (gradito frequentatore di
questo blog).